L’invenzione
della fotografia nella prima metà
dell’Ottocento non fu percepita come una minaccia per l’incisione e la pittura.
Anzi, fu proprio un pittore, il francese Paul Delaroche , a parlare per primo
del dagherrotipo come di un potente aiuto al pittore a fissare sulla tela una
veduta.
E tale
fu, in effetti, l’uso che della fotografia fecero molti artisti e incisori .
Ma il
nuovo mezzo non rimase senza conseguenze sulla loro arte. Da allora infatti, il
baricentro dell’ispirazione artistica si sarebbe sempre più spostato dalla
volontà di riprodurre nel modo più fedele possibile la realtà esteriore, alla
necessità di fissare sulla tela la propria sensazione interiore. La pittura di
paesaggio fu, nella seconda metà dell’Ottocento, il campo privilegiato di questa
rivoluzione che da allora avrebbe interessato tutte le correnti dell’arte
moderna, dall’impressionismo francese al divisionismo italiano. L’artista
fissava en plein air, come si diceva, l’immediatezza della propria sensazione,
ma spesso preferiva rifinire nel suo studio il dipinto, avvalendosi di appunti fotografici.
Oggi
conosciamo molti pittori di paesaggio che si sono serviti della fotografia come
mezzo per il proprio lavoro artistico. Più rari, invece, i casi di fotografi divenuti
essi stessi pittori.
Emilio
Sommariva è forse il caso più rilevante e originale di questa evoluzione dalla
fotografia alla pittura nella Lombardia della prima metà del Novecento, non
solo per la qualità dei risultati raggiunti nell’una e nell’altra attività, ma anche
per il modo singolare con cui arriva alla pittura.
Egli,
infatti, non è solo il ritrattista-principe della borghesia milanese, fotografo
della Real Casa ed esponente di primo piano della “fotografia pittorica” nella
Milano degli anni Venti e degli anni Trenta, ma è anche il fotografo più
ricercato dai maggiori artisti del tempo (Previati, Wildt, Boccioni, Carrà,
ecc.) per la qualità delle sue riproduzioni fotografiche dell’opera d’arte, che
gli varrà una lunga sequenza di premi e riconoscimenti internazionali. Ed è da
questa assidua frequentazione dei più prestigiosi ateliers artistici milanesi che si enuclea, a partire dalla fine
degli anni Venti, la sua vocazione di
pittore paesaggista che si dispiegherà con costante assiduità nell’ultimo
trentennio della sua vita, gli ultimi venticinque anni quando, col progressivo
abbandono, per cause politiche, della propria attività professionale, la
fotografia diventa ancella fedele della sua pittura.
Il
gruppo di paesaggi valtellinesi qui presentati, che vanno dal 1927 al 1951,
documentano bene l’evoluzione di questa sua attività pittorica, inizialmente ancorata
alla tradizione del paesaggismo lombardo del primo Novecento e perennemente
oscillante tra realismo e divisionismo, non senza, talora, qualche sorprendente
eco avanguardistica.
Nel ricco archivio fotografico di Emilio
Sommariva, oggi custodito nella biblioteca di Brera e consultabile in rete, si
ritrovano diverse immagini di questi stessi paesaggi, che, nella distanza tra
dipinto e fotografia e nella diversa logica visiva cui obbediscono, ci consentono di misurare ed apprezzare tutta
l’originalità l’autonomia del pittore dilettante rispetto al grande fotografo