C’è nell’arte valtellinese del secondo ‘900 una forma di paesaggio naturale e umano in cui l’uomo, del tutto (o quasi) assente, vi è indirettamente richiamato attraverso tracce e segni che ne evocano suggestivamente la presenza.
In questo tipo di paesaggio, una baita, un gruppo di case, un muro, una finestra, dei panni stesi al sole, una bottiglia su un tavolo o un semplice orizzonte, proprio per la loro capacità evocativa di un’assenza, si intridono di umori fortemente umani e acquistano un’intensità espressiva e una forza poetica in grado di raccontare la natura, il lavoro, il tempo, la storia e l’atmosfera di un luogo.
Attraverso sedici piccoli capolavori, presenti nelle collezioni d’arte della Bps, questa mostra intende appunto ricostruire il progressivo formarsi ed evolversi del paesaggio evocativo nella pittura locale valtellinese del secondo Novecento.
Le radici di questo tipo di paesaggio risiedono in quel genere pittorico impropriamente chiamato in Italia “Natura morta”, ma che nel Seicento gli olandesi per primi chiamarono “Still-leven”, i tedeschi “Still-leben” e gli inglesi “Still-life”, cioè “vita immobile”, in cui proprio l’immobile condensarsi della vita nell’oggetto lo carica della sua straordinaria forza evocativa, come dimostrerà più di tutti nel Novecento Giorgio Morandi.
Da qui la presenza in mostra della Natura morta con cui si apre la nostra rassegna virtuale.
Scorrono quindi nella mostra i paesaggi immobili e silenziosi di Luigi Bracchi che la presenza della figura umana, poco più che una macchia, rende ancora più solitari. Quelli neo impressionisti di Livio Benetti (magnifico il suo Case a Gatti). Il malinconico e crepuscolare Tramonto a Piona di Felice Cattaneo, I due paesaggi di sorprendente modernità, Contrada a Caspoggio e Per le vie di Caspoggio, del vecchio Francesco Carini. Quelli favolistici di Valter Vedrini, come il quasi chagalliano Vicolo in Valmalenco. Il raffinato Case rurali in Valtellina di Geremia Fumagalli, così ricco di echi delle moderne avanguardie europee e il rude e delicatissimo espressionismo montanaro di Angelo Vaninetti, dove il paesaggio evocativo tocca il suo vertice espressivo, come nell’enigmatico Finestra sul muro bianco, che Wolfgang Hildesheimer definì, a suo tempo, “un microcosmo di malinconia”.
Chiudono la mostra due paesaggi del chiavennasco Ferruccio Gini, in cui il sentimento di nostalgia proprio del paesaggio evocativo, si stacca dal mondo rurale valtellinese per trasformarsi in nostalgica sete di infinito, modernamente espressa con un lirismo geometrico, metafisico e quasi astratto.