
L’arte
sacra bizantina del IV e del V secolo è la grande matrice della pittura
religiosa sia in Occidente che in Russia e nell’Europa orientale.
È
a Bisanzio che il termine greco “icona”, cioè immagine, diventa sinonimo di
immagine sacra. Ed è a Bisanzio che fanno la loro apparizione le prime immagini
sacre, come il Mandylion, il lino col Volto santo del Cristo Acheropìta,
cioè non fatto da mano d’uomo, venerato a Edessa come l’autoritratto di Dio, o
l’icona della Madre di Dio, giunta nel 450 da Gerusalemme e dipinta, secondo la
tradizione, da S. Luca, “il dito di Dio”, cui sono attribuite le prime immagini
della Vergine. Questi archetipi dell’arte
cristiana si sviluppano, tuttavia, in forme diverse in Occidente e nell’Europa
orientale.
In
Russia le prime icone giungono da Bisanzio nel XII e qui non solo mantengono il
nome di icone, ma tendono a permanere invariate, conservando tutto il loro
primitivo carattere teologico, di visione proveniente direttamente da Dio, di
“preghiera dipinta”. Ciò spiega anche
perché nell’icona ogni più piccolo particolare ha un preciso significato
teologico, prima che estetico.
Il materiale deve
essere il legno, perché di legno erano l’arca di Noè e la Croce di Cristo; i
colori non devono esser brillanti, ma devono apparire colori riflessi, perché
l’immagine è un riflesso dell’al di là; allo
stesso tempo, però, devono essere indistruttibili e
“saldi come l’antica fede russa”, dice uno dei protagonisti
del bellissimo racconto
di Nikolaj Leskov, L’angelo suggellato, al cui centro c’è, appunto, il tema dell’icona; il fondo deve
esser di lamina d’oro o d’argento per indicare una luce sovrannaturale; le
ombre e il chiaroscuro vanno evitati, perché in paradiso non ci sono
ombre; l’immagine deve essere frontale e
non di profilo, perché tutto ciò che è divino non si nasconde e il profilo è
proprio del demonio; la prospettiva, infine, punto d’arrivo dell’arte
occidentale, è nell’icona, secondo la felice definizione di Pavel Florenskij,
una “prospettiva rovesciata”, proietta cioè l’immagine non in profondità, verso l’interno, ma in
primo piano, verso l’esterno, perché non deve esser l’osservatore a entrare
dentro l’immagine, ma l’immagine a penetrare dentro di lui. La
tridimensionalità della prospettiva risulta, così, abolita, per essere
sostituita dall’intensità dello sguardo.
Nell’icona, infatti, noi più che guardare, ci
sentiamo guardati.
In
Italia, invece, le primitive immagini frontali di Cristo e della Vergine su
fondo oro, come nella tradizione bizantina, evolvono presto con Giotto verso
una maggiore plasticità e una più ricercata espressività, cioè verso un
maggiore realismo prospettico e scenografico che da contemplativo si fa sempre
più narrativo. Dalle immagini della Madonna e del Cristo Salvatore si passa
così a quelle dell’Annunciazione, della Visitazione e della Passione e quindi a
quelle dell’Antico Testamento e della vita dei santi, lungo un percorso in cui
l’arte mira sempre più all’imitazione (mimesis) della realtà intesa come
creazione divina e dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio.
La grande stagione
artistica dell’icona termina nel Settecento. Ma l’abbondantissima produzione di
icone dell’Ottocento e
del primo Novecento, oggi oggetto di rinnovata attenzione critica,
conserva negli esemplari migliori
traccia evidente dell’antico iconismo russo.
Molti dei caratteri delle antiche icone russe si ritrovano così anche nelle sei icone
ottocentesche di soggetto mariano qui
presentate, che si rifanno ad alcune delle più celebri icone della Madre di
Dio, come quella di Kazan’ o quella di
Vladimir, il cui maggiore connotato è
la Tenerezza, o
come la Madre di Dio Odighitria, la più antica immagine mariana
dell’arte bizantina.
Nel
raffronto fra queste icone con alcune opere d’arte religiosa occidentale
presenti nelle collezioni della Bps, emergono due visioni del sacro non diremo
opposte, ma che risalgono a due concezioni teologiche molto differenti.