Se di Valenti conoscessimo solo i paesaggi, parleremmo di un pittore molto diverso da quello che conosciamo. Al di fuori dell’universo meccanico della fabbrica, coi suoi ritmi e i suoi imperativi produttivi che snaturano le relazioni umane e riducono l’uomo a una avvilente condizione servile, l’artista ritrova una gioia di vivere che manca del tutto al filone principale della sua opera e all’ossessivo pessimismo che la ispira.Ma se nei paesaggi di colpo scompare quel senso angoscioso di incubo e quella sindrome del prigioniero che è il leit-motiv della sua opera, non si perdono tuttavia le caratteristiche inconfondibili del suo stile pittorico: la funzione costruttiva del colore, che gli deriva dallo studio dei grandi maestri moderni del postimpressionismo, la scomposizione degli oggetti e della realtà in sfrangiati e irregolari tasselli cromatici che conferiscono dinamismo alla rappresentazione, il forte senso decorativo del colore, spesso in contrasto col contenuto drammatico e angoscioso delle sue opere, ma che nei paesaggi diventa coerente e rafforza potentemente la rappresentazione. Valenti per primo, del resto era cosciente del carattere eccentrico dei suoi paesaggi rispetto al resto della sua produzione, vivendoli come colpevole evasione dalla sua verità esistenziale. Racconta, infatti, il figlio Stefano “di come distruggesse quei paesaggi, di come li lacerasse, di come si avventasse su quello che ne restava, e di come rapido, li facesse a brandelli nascondendoli in sacchi neri pur di eliminarli, purché non insidiassero la sua condizione di operaio prestato alla pittura” (Stefano Valenti, La fabbrica del panico, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 29).Di questo filone della sua opera, i due paesaggi qui presentati sono, appunto, due rari esempi fortunatamente scampati alla furia distruttiva dell’artista.Essi mostrano quanto notevole e artisticamente rilevante fosse l’ispirazione paesistica di Valenti, certamente la più avanzata e moderna della pittura valtellinese degli anni Ottanta del Novecento.Fra i due paesaggi c’è tuttavia una significativa differenza. Mentre nel Cortile di giugno l’ispirazione paesistica prorompe libera, allo stato puro, nel Paesaggio garganico, affiorano, invece, qua e là, i segni della paura ossessiva della fabbrica e, con essi, quel sentimento di colpa che porterà l’artista a distruggere buona parte dei suoi paesaggi.