(Monza 1889 - Milano 1987)
Guido Pajetta nasce a Monza l’8 febbraio 1889. Il padre, originario di Vittorio Veneto, è farmacista, ma nella sua famiglia l’arte è nel sangue. Il nonno Paolo e gli zii Pietro e Mariano erano stati, infatti, tutti pittori ed esponenti non secondari della tradizione naturalistica nella pittura veneta. Del loro genio artistico Guido Pajetta sarà nel ‘900 l’erede. Si iscrive nel 1914 all’Accademia di Brera, ma nell’infatuazione bellica del 1917 parte volontario fra gli Arditi. Una malattia polmonare e intestinale durante la ritirata di Caporetto lo costringe però in ospedale e, una volta finita la guerra, nel 1919 riprende a frequentare all’Accademia di Brera i corsi di Ambrogio Alciati. Brera è in quegli anni un ambiente ricco di fermenti. Fra i suoi compagni ci sono Atanasio Soldati e Gino Ghiringhelli, che daranno vita in Italia al primo astrattismo, e ci sono Del Bon, Lilloni, De Amicis, i futuri chiaristi insomma, cui, alla fine degli anni ’30 si avvicinerà anche Guido Pajetta, dopo gli anni del giovanile entusiasmo per Sironi e della partecipazione al clima artistico di Novecento fra il 1928 e il 1934 e dopo la parentesi metafisica e surreale del ’34-’35 nutrita dall’elastica assimilazione della pittura di Dufy e dei Fauves francesi, che darà un carattere molto personale al suo chiarismo degli anni tra 1939 e il 1946.
Si precisa così nella sua pittura quella tendenza eclettica che rimarrà la caratteristica di fondo della sua opera e che si risolve continuamente, come ha sottolineato Mario De Micheli, in una straordinaria “capacità di assimilare in proprio, cioè senza che il carattere originale della propria natura resti sacrificato”, linguaggi artistici e formali differenti.
Questa caratteristica della sua personalità artistica si manifesta in quegli anni, soprattutto, attraverso una ricercata leggerezza e una costante vena di sottile ironia (che è spesso anche autoironia), evidente, ad esempio, in opere come Piazza Venezia (1934) - dove si vide subito una dissacrante parodia del regime nelle natiche nude di quegli uomini in toga romana sotto il balcone del Duce - o in Sogno pompeiano (1934), dove un pittore in crisi di ispirazione sta mollemente sdraiato in terrazza tra la modella in attesa, la cameriera che gli porta una bevanda e un suonatore di lira che cerca di ridestarne lo spirito, mentre sullo sfondo il Vesuvio esplode.
Nel 1928, l’anno della sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia e della sua amicizia con Lucio Fontana, Pajetta aveva conosciuto il gallerista milanese Massimo Cassani, che ne diventerà l’amico e il maggior sostegno mercantile, fino ad aprire una mostra permanente delle sue opere nella propria Galleria Del Lauro. Nel 1938 l’artista monzese sposa la propria modella, Maria Panizzutti, da cui avrà tre figli, e con la famiglia trascorre il periodo bellico, fra il ’42 e il ’45, a Tremezzo, sul lago di Como. Sono questi gli anni in cui matura lentamente nel registro stilistico e nel clima stesso della sua pittura una svolta che si rivelerà bruscamente con la Deposizione del 1949.
Il primo ad esserne sorpreso è il suo amico Cassani che si rifiuta di acquistare l’opera che resterà, infatti, sempre dietro il cavalletto dell’artista a testimoniarne il mutamento. Già intorno al ’38 era subentrata nelle sue tele una certa malinconia (Canarino in gabbia, 1938; Natura morta in un interno, 1938; Vaso cinese, 1942), e un’inedita tendenza all’introspezione psicologica (L’attesa, 1939; Liliana in blu, 1942; Autoritratto con turbante e gatto nero, 1940). Ora, tuttavia, con la Deposizione del ‘49, replicata nel ’52, nel ’54 e nel ’62, il suo stile si apre all’influenza di Picasso, del postcubismo e dell’espressionismo di Rouault, di Grosz, di Bacon, mentre i suoi temi si allargano dapprima a quelli della sofferenza e del dolore e quindi a quelli a lui più congeniali dell’ambiguità della vita, della maschera, del ghigno irriverente, della deformazione grottesca della figura e del volto.
Quel che avviene, insomma, nella pittura di Pajetta a partire dalla fine degli anni ’40 è un generale ripiegamento verso una dimensione di maggiore interiorità, in cui diventa progressivamente centrale l’indagine sulla condizione esistenziale dell’uomo e sulla generale perdita di senso della vita nel mondo moderno.
Anche se Pajetta rivendicherà sempre il carattere istintivo della propria pittura e l’assenza in essa di ogni connotato intellettualistico e cerebrale, la svolta del ’49 si alimenta in realtà di letture e suggestioni filosofiche e letterarie (Nietzsche, Schopenauer, Brecht, Beckett, ecc.) che danno sostanza e densità intellettuale agli sviluppi stilistici e formali della sua opera, che rimarrebbero altrimenti incomprensibili, come tende a mettere oggi in rilievo la critica più attenta. La ripetuta riaffermazione della radice istintiva delle sue opere, come anche il persistente eclettismo formale, vanno del resto intesi soprattutto come un modo per sfuggire a ogni etichettamento di scuola, un’esigenza anarchica di piena rivendicazione della propria libertà stilistica. Lo stile, infatti, non è per Pajetta un fine, un punto d’arrivo, ma un mero strumento espressivo.
Se c’è, piuttosto, un motivo unificante nella sua opera del secondo dopoguerra, è semmai quello della maschera, dove si condensa l’ambiguità e l’inafferrabile confine fra l’essere e l’apparire, fra la profondità e la superficie, fra il serio e il grottesco. Nella maschera si riassume, insomma, l’essenza della sua personalità artistica e, forse, della sua stessa personalità umana.
Malgrado le numerose mostre, la gelosa difesa della propria libertà espressiva lo aveva portato, nel corso degli anni, a un progressivo isolamento, che dopo la morte del Cassani, nel 1982, e la chiusura della sua mostra permanente alla Galleria Del Lauro, si farà ancora più accentuato e rigido.
Morirà serenamente il 15 febbraio 1987 nella sua casa-studio di via Delio Tessa 1, a Milano.
La mostra postuma curata in quello stesso anno da Raffaele de Grada a Venezia e a Milano e quella del 1988 alla Permanente a cura di Mario De Micheli, che gli dedicherà anche un’importante monografia, contribuiranno a ridestare l’interesse attorno alla sua opera che si manterrà ininterrotto fino alla recente antologica del 2004 al Serrone di Villa Reale a Monza, che ne ha indagato in profondità le fasi e lo sviluppo.
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