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Titolo dell'opera:

I Promessi Sposi: 16 litografie (1830-31)

Autore:

Bartolomeo Pinelli

(Roma 1781 - Roma 1835)

Tecnica:

Litografia

Stile:

Romanticismo

Note:

INDICE

I Promessi Sposi: 16 litografie (1830-31)

I PROMESSI SPOSI: 16 LITOGRAFIE DI BARTOLOMEO PINELLI

 

Nella storia dell’illustrazione dei Promessi Sposi, le 20 litografie di Bartolomeo Pinelli occupano un posto particolare, non solo perché sono tra le prime ad essere apparse dopo l’uscita della prima edizione del romanzo nel 1827 – la cosiddetta “ventisettana”, che precede di 13 anni l’edizione definitiva del 1840, la “quarantana” – ma anche perché sono opera di un artista romano che ci dà un’interpretazione in chiave piuttosto romanesca del romanzo manzoniano.

Rispetto alle illustrazioni delle numerose edizioni “abusive” apparse subito dopo la pubblicazione del romanzo nel 1827 presso l’editore milanese Ferrario, le litografie del Pinelli, uscite tra il 1830 e il ’32, costituivano una serie litografica a sé, non finalizzata a illustrare il romanzo, ma ad essere piuttosto esse stesse il romanzo illustrato, come quelle coeve sui Promessi Sposi di Roberto Focosi e del cremonese Gallo Gallina, pubblicate a Milano nel 1829.

Focosi e Gallo Gallina, tuttavia, erano due artisti lombardi fedeli illustratori dell’ambiente della Lombardia secentesca, così meticolosamente ricostruito dal Manzoni, mentre Bartolomeo Pinelli, «er pittore de Trastevere», come lo chiamò Giovanni Gioacchino Belli nel celebre sonetto-necrologio La morte der zor Meo, era noto per le sue pittoresche incisioni, che Hayez nelle sue Memorie dice «piene di gusto», in cui esaltava il costume e la vita del popolo di Roma e della campagna romana, così lontani dal mondo popolare lombardo degli umili, protagonista del romanzo manzoniano.

Pinelli, però, era anche l’artista colto che aveva illustrato l’Eneide, la Divina Commedia, la Gerusalemme Liberata, l’Orlando furioso e L’Asino d’oro di Apuleio e lo straordinario divulgatore che aveva pubblicato una sua storia romana per immagini e una sua storia della mitologia greca illustrata, anticipando i tempi della moderna editoria popolare.

Nella plebe rissosa e paganeggiante della Roma del suo tempo e negli stessi briganti dell’agro romano, tra cui da giovane aveva per qualche mese vissuto, egli vedeva gli eredi dell’antica fierezza della Roma classica e come eroi li raffigurava in scene ricche di echi della scultura classica, fondendo nelle sue incisioni neoclassicismo e moderno spirito romantico.

Era dunque inevitabile che anche in queste sue litografie sui Promessi Sposi, come nelle illustrazioni di Dante, di Tasso o dell’Ariosto, affiorassero continuamente stilemi, fisionomie, atteggiamenti e tic figurativi desunti direttamente dal suo repertorio iconografico romanesco.

Ecco allora spuntare l’agave mediterranea nella scena dell’incontro di don Abbondio con i bravi, ecco apparire improbabili architetture classiche e vitruviane, in luogo del semplice villaggio di pescatori, nella scena in cui fra Cristoforo si reca a casa di Lucia, ecco emergere qua e là il profilo attico e neoclassico di Lucia o l’atteggiamento da ganzo trasteverino di Renzo, ecco i bravi, sovraccarichi di armi, più simili a ingrifagniti briganti ciociari che a sgherri d’un signorotto, ecco, infine, molti personaggi balzare spesso con enfasi scultorea nel dilatato primo piano delle scene.

Ma con tutto questo, l’invenzione scenica è quasi sempre felice, l’aderenza al racconto manzoniano in molti casi puntuale e, nei singoli episodi, la scelta del momento narrativo da rappresentare (come nel caso del delitto di Lodovico) è talvolta superiore a quella di qualunque altra illustrazione coeva, mentre le stesse sgrammaticature romanesche in dissonanza con lo spirito manzoniano, andrebbero forse meglio viste e valutate nell’ottica di rendere più facile e immediata la ricezione del romanzo da parte di un pubblico popolare come quello romano.

Se le litografie di Pinelli rappresentano dunque, come ha scritto Marco Gasperi «il più illustre dei tradimenti figurativi inflitti al romanzo», (e lo rappresentano), certamente si tratta anche di uno dei più felici e storicamente significativi, perché con esso un artista romano di raffinata cultura riconosce implicitamente a un romanzo lombardo contemporaneo, a pochi anni dalla sua apparizione, il valore di classico della letteratura universale e, insieme, quello di vero e proprio romanzo nazionale.

Si dice che a Manzoni le litografie di Pinelli non piacessero e che ne fosse, anzi, francamente infastidito. Ma, a parte il fatto che di questo non c’è alcuna traccia né negli scritti del Manzoni, né nelle testimonianze coeve, ma solo, come nota Giorgio Mascherpa, l’opinione di «qualche storico maligno nel sottolineare la secolare polemica politico-liturgica tra Milano e Roma», va detto che nessuna illustrazione del romanzo parve allora di suo gusto, se, quando si trattò di illustrare l’edizione definitiva del ’40, scelse, dopo un’accurata selezione, il torinese Francesco Gonin, scartando, a quanto pare, anche il suo amico Hayez, impegnato allora a dipingerne il ritratto, che, dopo le prime prove, rinunziò all’impresa. Sappiamo, del resto, con quanta cura ed esasperata attenzione Manzoni seguì e guidò la mano dello stesso Gonin. E forse, dopo aver lavorato per anni a limare e intagliare la sua prosa fino a farla brillare come uno smeraldo, nessuna illustrazione del suo romanzo lo avrebbe mai soddisfatto, neppure probabilmente quelle celebri novecentesche di Previati, di De Chirico o di Guttuso, che ne avrebbero fatto il romanzo più illustrato della letteratura italiana.

Altri sono, invece, i problemi che sollevano queste litografie di Pinelli. Mentre, infatti, i primi sedici episodi seguono abbastanza sistematicamente la progressione narrativa dei primi otto capitoli del romanzo, dopo la sedicesima litografia si salta al cap. XIV che inaugura le disavventure di Renzo a Milano, con un vuoto narrativo che oscura stranamente proprio la storia più nota e popolare, quella della monaca di Monza.

La ragione più plausibile è che Pinelli abbia qui dovuto subire i rigori dell’occhiuta censura pontificia che per poco non aveva messo all’Indice il romanzo del Manzoni, fortemente sospetto di rigorismo giansenista. E con quanta meticolosa attenzione i censori seguivano la pubblicazione delle litografie di Pinelli, lo si può dedurre dalla tavola 17 (non compresa fra le 16 della Bps), quella in cui Renzo vedendo la “grida” esclama nel romanzo «Ecco quel foglio di messale...», che nel testo in calce i censori correggono «Ecco quel bel foglio...», sembrando troppo blasfemo il riferimento al messale per irridire una “grida”.

Il secondo problema riguarda, invece, la brusca interruzione della serie alla ventesima litografia, quasi certamente per decisione dell’editore, forse stanco dei continui interventi censori, forse deluso dallo scarso successo commerciale delle litografie, le uniche prodotte in vita sua da Pinelli e fra le prime dell’editoria romana, ritenute per il minor costo meno pregiate delle incisioni.

Pinelli passava così ad illustrare con le sue acqueforti il Don Chisciotte, rimasto incompiuto per la morte che lo colse improvvisa il 1° aprile 1835, «crepato pe causa d’un bucale», scrive G. G. Belli, «... Era già scummunicato, / ha chiuso l’occhi senza confessione ... / Cosa ne dite? Se sarà sarvato?».

  

Le litografie sui Promessi Sposi

di Bartolomeo Pinelli nelle collezioni d’arte della BPS

 

Bartolomeo Pinelli fu soprattutto un disegnatore e un incisore. Le venti litografie che volle dedicare ai Promessi Sposi tra il 1830 3 il 1832, sono le uniche da lui realizzate e pubblicate a Roma, dove la litografia era stata introdotta nel primo decennio dell’Ottocento.

Della serie litografica di Bartolomeo Pinelli sui Promessi Sposi si conoscono oggi pochissimi esemplari originali tra Roma e Milano, non più di quattro o cinque, spesso incompleti. Ad essi, bisogna aggiungere ora questo esemplare, purtroppo anch’esso incompleto, entrato anni fa nelle collezioni della Banca Popolare di Sondrio,

Delle sedici litografie, a suo tempo acquistate dalla Bps sul mercato antiquario per arredare gli uffici della succursale di Lecco, non si conosce la collezione di provenienza. Ma sia l’esame della carta che il confronto con gli originali conosciuti, non lasciano dubbi che appartengano alla prima originale tiratura dell’opera.

Infine, per i testi manzoniani a corredo di ogni singolo episodio, si è riportato il corrispondente brano di riferimento del romanzo sia nell’edizione del ’27 (la “ventisettana”), che è quella su cui ha lavorato Pinelli, sia nell’edizione definitiva del ’40 (la “quarantana”) che è quella più familiare a ciascuno di noi. Ciò permette, fra l’altro, di unire al raffronto fra il testo del Manzoni e l’immagine del Pinelli, anche quello del testo delle due edizioni del romanzo, per il quale ci si è rifatti alla classica edizione interlineare curata da Lanfranco Caretti, I Promessi Sposi nelle edizioni del 1840 e del 1825-27 raffrontate tra loro (in Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Torino, Einaudi, 1971, vol II).

 

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