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Informale

Il termine è definitivamente entrato nel linguaggio critico dopo che nel 1951 M. Tapié lo ha utilizzato in riferimento alla mostra parigina di un gruppo di artisti (Ryen, Capogrossi, De Kooning, Hartung, Mathieu, Pollock, Riopelle, Russell, Wols), ognuno dei quali, a suo modo, avrebbe raggiunto per il critico francese "le domaine indéfini de l'informel". Da quel momento il termine è stato sempre più utilizzato per indicare non una corrente precisa, ma una tendenza comune a quasi tutte correnti di arte non figurativa del dopoguerra, nate dalla rivoluzione del colore operata dai Fauves (v. fauvisme) e dalla scoperta dell'arte astratta (v.), ad emanciparsi anche dalla responsabilità di dare un senso all'opera d'arte.
Umberto Eco ha interprato questa tendenza come la caratteristica propria dell'opera d'arte di proporsi come opera aperta, il cui significato viene cioè costruito ogni volta dall'osservatore. Ma Carlo Giulio Argan ha parlato piuttosto di una "poetica dell'incomunicabilità" imposta all'artista dalla "condizione di necessità in cui l'arte, che tutta una tradizione culturale aveva posto come forma, viene a trovarsi in una società che svaluta la forma e non riesce riconoscere più nel linguaggio il modo essenziale della comunicazione tra gli uomini [...]. L'artista esiste ed esiste perché fa: non dice che cosa debba o voglia fare nel e per il mondo; sta al mondo dare un senso a quello che fa." Da questo punto di vista l'esperienza dell'Action Painting americana del dopoguerra appare esemplare (v. espressionismo informale, dripping).