"Industria auget imperium", l'industriosità accresce il potere. Queste parole, intarsiate nel legno della Sala delle Udienze di Palazzo Vertemate Franchi a Cortinaccio di Piuro, furono il motto di Luigi e Guglielmo Vertemate, che nel 1577 restaurarono la residenza di campagna della famiglia. E della famiglia Vertemate, quelle parole riassumevano in qualche modo la filosofia che l'aveva portata a diventare in due secoli e mezzo una delle più ricche e potenti famiglie di Piuro, il fiorente borgo alpino sulla via commerciale del Septimer e del Maloja/Julier, orgogliosamente autonomo da Chiavenna, nel cui Contado si trovava, ma con la quale da sempre rivaleggiava in floridezza economica e signorile magnificenza delle proprie famiglie. Fra queste la più prestigiosa era nel Cinquecento quella dei Vertemate.
Non erano originari di Piuro i Vertemate, ma un ramo dei Della Porta di Milano, quello che all'inizio del XII secolo aveva ereditato terre e castello del feudo di Vertemate, a pochi chilometri da Como, da cui aveva preso il nome. Rimasti presto coinvolti nella guerra tra Como e Milano, in cui era stato distrutto anche il loro castello, si erano poi sempre più riavvicinati ai comaschi imparentandosi con la potente famiglia Rusconi. E proprio dai Rusconi, una volta alla guida di Como, Ruggero Vertemate era stato nominato nel 1217 podestà a Piuro, nel contado di Chiavenna, da cui non si sarebbe più mosso.
Ruggero era uno dei primi podestà del piccolo borgo alpino, da poco indipendente, che nel 1226 aveva già propri statuti in cui, forse, c'è anche la sua mano. Notai e uomini di legge sono, infatti, quasi tutti i suoi discendenti. In un documento comunale del 1253, ne troviamo citati due, Giovanni e Lanfranco Vertemate, figli di Lanfranco, che a Piuro aveva dato vita a un ramo della famiglia, quello dei Vertemati Franchi, discendenti cioè di Lanfranco, distinto da quello dei discendenti di Polidoro Vertemate, stabilitisi a Basilea dove avrebbero dato vita alla famiglia Werthemann.
Piuro cominciava allora la propria ascesa economica, fondata sulla lavorazione della pietra ollare e sul commercio di transito, che l'avrebbe portato a diventare uno dei centri più floridi del chiavennasco. Di questa ascesa i Vertemate Franchi saranno tra i maggiori protagonisti .
Nel 1328 erano ormai talmente noti e potenti che Giovannello Vertemate poteva ospitare nel suo palazzo di Piuro la moglie dell'Imperatore Ludovico il Bavaro, di passaggio nel suo viaggio verso Como e Roma per l'incoronazione papale del marito.
Numerosi sono, d'altronde, i membri della famiglia che ricoprono in ogni secolo le cariche di sindaco della comunità e di rappresentanti del comune.
Ma non erano solo le cariche pubbliche ad accrescerne ricchezza e prestigio, bensì anche l'intraprendente spirito mercantile che li aveva presto portati a dare una dimensione europea alla propria attività nel commercio del cotone e della seta, soprattutto dopo l'allargamento della strada del Septimer, resa carreggiabile nel 1387 su pressione dei mercanti milanesi, in conseguenza del monopolio commerciale tra gli stati dell'impero concesso nel 1359 da Carlo IV d'Asburgo alle strade del principato vescovile di Coira.
Si sviluppa, così, l'attività commerciale delle maggiori famiglie di Piuro, i Lumaga, i Crollalanza, i Beccaria o i Vertemate che nel Cinquecento impiantavano filatoi anche a Bassano. Non si trattava di piccolo commercio, cioè di una quelle "attività vili" che dei nobili blasonati non avrebbero allora potuto esercitare senza perdere il loro titolo, ma di grande imprenditoria commerciale internazionale che, sebbene anch'essa "vile", era però più tollerata nella piccola nobiltà periferica e rurale, come quella piurasca, mentre non lo sarebbe stata a Milano dove i milites, cioè i nobili feudatari che vivevano della rendita dei loro feudi, erano ben distinti dai mercatores, cioè dalla borghesia commerciale.
Nobiltà e mercatura diventavano, invece, pienamente compatibili in tutti quei luoghi come Piuro, il chiavennasco e i Grigioni in genere, dove libertà municipale, attività commerciale ed esercizio del potere politico finivano per essere necessariamente tutt'uno.
Né l'attività commerciale dei Vertemate viene a soffrire col passaggio sotto i Grigioni nel 1512 del Contado di Chiavenna che conserva, peraltro, una larga autonomia. Anzi, la loro funzione politica, semmai, si accresce non solo grazie a un'accorta politica matrimoniale che li porta a imparentarsi con le maggiori famiglie dell'aristocrazia valtellinese, gli Alberti di Bormio, i Quadrio di Tirano, i Besta di Teglio, ma proprio in virtù del loro stesso attivissimo ruolo economico. Industria auget imperium, appunto.
Lo dimostra il restauro del loro palazzo di Cortinaccio di Piuro, per il quale i fratelli Luigi e Guglielmo Vertemate spendono nel 1577, 100 mila scudi, vale a dire una buona fetta del patrimonio familiare, che alla loro morte, nel 1586, ammonta a 430.000 scudi.
Sebbene si tratti di una residenza di campagna - un "casino per ricreazione e delizia", come lo definì Macolino nel 1708 - il palazzo, scampato alla frana del 1618, ci colpisce ancora oggi per il fasto e la raffinatezza dei suoi arredi e delle sue decorazioni interne che, tuttavia, ci danno solo una pallida idea della magnificenza della loro residenza urbana di Piuro, della quale solo alcuni dipinti e un bel disegno dell'epoca ci hanno conservato l'immagine esterna, sufficiente a giustificare l'ammirazione dei contemporanei per il gusto residenziale della famiglia.
Nella dedica ai Vertemate Franchi della Vita di Giacomo dei Medici di Marc'Antonio Missaglia, il tipografo milanese Pietro Martire Locarni , ad esempio, paragona nel 1605 i loro palazzi di Piuro ai più celebri palazzi romani, "ma - scrive - di quelli tanto più sono ammirandi , quanto che nell'asprezza dei Monti mai sarebbe stato giudicato , che così eccelsi avessero a riuscire; e malgrado dell'alpestre sito, tanti Giardini amenissimi, tante Spalliere de'più preciosi frutti, e delle più dilettevoli ed odorifere Piante, c'habbia la natura prodotto, fanno apparere, come à Napoli un'altro Pausillipo, e come à Genova un'altra Riviera." All'interno del palazzo di Piuro, il tipografo milanese era poi rimasto particolarmente colpito dalla "stupenda Libreria di VV. SS. [...]arricchita con tanta loro diligenza e spesa, così abbondante et universale de i libri di tutte le scienze, e professioni, e di tutte le lingue; che per non lo dir dell'altre, quando mancasse alla volgare Italiana ogni libro, e che in Italia più non se ne trovasse, ivi senza dubbio sarebbe sicura la natione di ritrovarlo".
Locarni, purtroppo, si sbagliava, perché quella "stupenda Libreria" sarebbe andata distrutta, insieme al palazzo, nella frana che la sera di venerdì 4 settembre 1618 seppellì l'abitato di Piuro.
Quella frana, nel clima di aspro conflitto religioso fra cattolici e protestanti alimentato dallo scontro politico e militare tra le grandi potenze, fu subito interpretata da parte cattolica come una punizione del cielo contro la nuova "Sodoma delle Alpi" in cui si annidava l'eresia protestante e un monito divino ad estirparla. Ma, due anni dopo, il "sacro macello" dei protestanti in Valtellina vide del tutto estraneo il Contado di Chiavenna, dove, malgrado le tensioni, sopravvisse sempre uno spirito di maggiore convivenza tra cattolici e riformati, frutto del suo radicato spirito commerciale e della maggiore libertà e autonomia di cui il Contado godeva sotto i Grigioni.
A Chiavenna e a Piuro, del resto, troviamo nel corso del Cinquecento, parecchi di quegli eretici italiani, ricchi mercanti o raffinati umanisti rifugiatisi nei Grigioni per sfuggire all'Inquisizione cattolica (Ludovico Castelvetro, Nicolò Camulio, Scipione Lentulo, Agostino Mainardi, Francesco Negri, Girolamo Zanchi, ecc.), che nella raethica libertas cercavano quella tolleranza religiosa, allora sconosciuta in Europa, che per primi i Grigioni avevano proclamato nel loro territorio. E a Piuro si svolgerà nel 1597 una celebre disputa dottrinale tra teologi cattolici e teologi riformati.
A differenza di altre nobili famiglie di Piuro e di Chiavenna, i Vertemate rimasero sempre compattamente cattolici. Ma il loro fu un cattolicesimo aperto e tollerante, nutrito di quello stesso spirito umanistico che animava eretici e riformati e di cui rimane evidentissima traccia negli affreschi del loro palazzo di Cortinaccio di Piuro, tutti ispirati a temi mitologici profani e a un sentimento edonistico della vita, per non parlare dell'assenza nel palazzo, dove pure venivano ospitati i vescovi in visita pastorale, di una cappella (che c'era, invece, nel palazzo distrutto di Piuro) o di un oratorio, che vi verrà eretto solo nel 1690, quando i conflitti religiosi erano ormai un ricordo.
Nella frana del 1618 morirono ventitré membri della famiglia Vertemate Franchi, fra cui Ottavio e la moglie Ortensia Beccaria ritornati proprio quel giorno dai Bagni di Masino e Nicolò con sua moglie Dorotea, anch'essi rientrati quel fatale 4 settembre da St. Moritz, dove erano andati per la cura delle acque acidule.
Sotto le macerie fu trovato, poco tempo dopo, il cadavere di Guglielmo Vertemate, col sigillo d'oro e un diamante di 100 scudi al dito, un braccialetto d'oro al polso e una borsa con 150 scudi stretta tra le mani durante il disperato tentativo di sottrarsi alla frana.
Si salvarono, invece, i tre figli di Nicolò, Carlo, Luigi e Giovanni Girolamo - uno a Lione per affari, gli altri due a Vienna e Bamberga per studio o per lavoro. Altri 12 Vertemate, stando al Crollalanza, si sarebbero salvati perché anch'essi in giro per l'Europa, a Rouen, a Praga, a Genova, a Traona, come i sette membri della famiglia Lumaga che si trovavano in quel momento chi a Genova, chi a Norimberga, chi a Parigi, chi a Verona. A ricostruire, insomma, la geografia degli scampati, si avrebbe un'immagine fedele della dimensione europea entro cui si svolgeva, all'inizio del Seicento, la vita delle più ragguardevoli famiglie commerciali di Piuro.
Anche da questo si comprende la grande eco che ebbe allora in Europa la frana e l'interesse scientifico che essa continuò a suscitare per tutto il Settecento, se Ludovico Antonio Muratori negli Annali d'Italia e lo stesso Kant nella Geografia fisica (1802), ne parlano ancora come di un fatto straordinario.
Dopo la frana la residenza di campagna di Cortinaccio era divenuta il vero palazzo dei Vertemate, affittato per due anni al pretore grigione rimasto senza sede. Dei tre fratelli Vertemate superstiti, Luigi assunse già nel 1619 la carica di vice-capitano, mentre Carlo ricoprirà nel biennio 1630-1632 la carica di podestà e di capitano del comune e sarà lui, purtroppo, a mandare al rogo nel 1631 otto povere donne come streghe.
La stessa carica di podestà e capitano rivestirà nel 1695 anche suo figlio Francesco che, insieme al fratello Daniele, porterà a termine la definitiva rinascita economica della famiglia e la costruzione nel 1690 dell'oratorio vicino al palazzo. Un secolo dopo, suo nipote Francesco avrebbe presieduto a Piuro il tribunale rivoluzionario che congedava l'ultimo podestà grigione, aprendo le porte alla napoleonica Repubblica Cisalpina. Con un ultimo Francesco, morto nel 1879 senza discendenti, la famiglia si sarebbe, infine, estinta. E quando nel 1892 e nel 1893 moriranno le sue due sorelle, Angelica e Martina - l'ultima ad abitare il palazzo col marito Giacomo Del Vecchio e i figli - dei Vertemate Franchi si perderà definitivamente ogni traccia.
Il palazzo Vertemate di Cortinaccio di Piuro è, insieme a Palazzo Besta di Teglio, il più importante della provincia di Sondrio.
Concepito come residenza di campagna, esso rientra a pieno titolo nella tipologia della villa rinascimentale lombarda e, forse, come questa, non era solo luogo di piacere e dell'otium signorile, ma anche centro del negotium familiare, cioè di una vera e propria attività agricola imprenditoriale, come ha ipotizzato Guglielmo Scaramellini.
L'edificio, a pianta rettangolare col tetto aggettante, sorge al culmine di un'area coltivata e delimitata da un rustico muro di pietra che, insieme al geometrico giardino all'italiana che lo affianca, si pone come un ritaglio di natura razionalmente ordinata entro il più vasto scenario della natura incolta e selvaggia.
La facciata, di modesta semplicità, è armonicamente scandita dal ritmo simmetrico delle finestre sui tre piani dell'edificio, ma viene ad essere, per così dire, architettonicamente completata e nobilitata dal piccolo giardino all'italiana che, con la perfetta geometria delle sue aiuole e la balaustra della peschiera a doppia esedra, le conferisce un'inconfondibile nota di aristocratica sobrietà.
L'unico elemento architettonico di spicco della facciata è il portale a bugnato su cui si leggono incisi i nomi in latino dei due fratelli Vertemate, GULIELMUS e ALUISIUS (Luigi), che nel 1577 ampliarono e restaurarono l'antica casa di campagna della famiglia. Alla sommità del portale, lo stemma in pietra ollare della famiglia (il castello ghibellino di Vertemate con la porta dei Della Porta milanesi) sormontato dall'aquila imperiale di cui, secondo alcuni, Ludovico il Bavaro nel 1328 avrebbe loro concesso di fregiarsi in ringraziamento dell'ospitalità .
Salendo dalla breve scalinata del vecchio accesso, il portale appare perfettamente inquadrato entro una scenografica quinta di archi in successione che ne mette magnificamente a fuoco tutta la nobile semplicità.
Nell'atrio di ingresso ci si trova subito immersi nella piacevole e colta atmosfera di un'aristocratica residenza di campagna del Cinquecento. Sulle pareti, le grandi figure dipinte di Ercole, Nettuno, Vulcano e Saturno sembrano volerci introdurre a una sorta di viaggio nella mitologia antica, mentre sulla volta è tutto un succedersi di piccoli e grandi riquadri con figure allegoriche augurali (Bacco, una donna con falce e cornucopia, un'altra con uccello tra le nuvole) entro un fitto tessuto decorativo di chiara tonalità che rende più gaio e luminoso l'ambiente.
Sono dipinti di vivida freschezza, come quelli, d'altronde, di tutto il palazzo, certamente tra i meglio conservati della provincia di Sondrio.
A sinistra dell'atrio si apre il Salone di Giove e Mercurio, così detto dal grande riquadro della volta centrale in cui sono rappresentati Giove, Mercurio e Cupido. Attorno al riquadro, le figure allegoriche delle quattro stagioni: la primavera (donna col mazzo di fiori), l'estate (donna col mazzo di spighe), l'autunno (uomo con grappoli d'uva), l'inverno (vecchio davanti al camino). Come ha notato Germano Mulazzani, che dei cicli pittorici di palazzo Vertemate è il maggiore studioso, questi affreschi non hanno né una funzione architettonica, nel senso di costruire illusionisticamente lo spazio, né un significato narrativo o simbolico. La grande scena centrale con Giove, Mercurio e Cupido, non narra una storia, ma rappresenta semplicemente le tre divinità senza alcun rapporto tra loro. Analogamente le figure delle quattro divinità (Minerva, Marte, Apollo e Diana) entro le grandi cornici delle pareti laterali, "si stagliano sulla parete lasciata bianca - scrive Mulazzani - come figurine ritagliate e incollate su un foglio di carta", senza significato, ma con un gradevole effetto decorativo, come le otto figure dipinte nei pennacchi che separano le lunette, il cui senso allegorico francamente sfugge.
Le uniche scene che stanno in qualche relazione con le divinità raffigurate nel riquadro della volta, sono quelle dipinte nei riquadri delle sei lunette senza finestra, dove troviamo rappresentate la storia degli amori di Giove e di Io e quella di Apollo e Dafne, tratte dalle Metamorfosi di Ovidio.
Nel primo riquadro, Giove si innamora di Io, sacerdotessa di Giunone, e la insegue nel bosco avvolgendola nella nebbia (Metam. I, 588-600); nel secondo, Io è mutata in vacca per l'arrivo improvviso di Giunone, e viene da questa affidata ad Argo, il guardiano dai cento occhi (Metam. I, 610-625); nel terzo, Mercurio, inviato da Giove, cerca di addormentare Argo al suono della sua zampogna, ma Argo resiste e gli chiede com'è stata inventata la zampogna (Metam. I, 680-688); nel quarto, Mercurio racconta ad Argo la storia di Pan che volendo abbracciare la ninfa Siringa finisce per stringere un mazzo di canne palustri in cui essa viene, all'ultimo momento, mutata e in cui il vento fa sibilare suoni dolcissimi (Metam. 689-712); nel quinto, Mercurio decapita Argo che si è addormentato (Metam. I, 713-719); nel sesto, infine, la storia di Apollo che insegue Dafne, il suo primo amore, tramutata in pianta d'alloro non appena la raggiunge (Metam. I, 452-567).
Germano Mulazzani ha identificato queste immagini come "debole trascrizione" pittorica delle xilografie di Bernard Salomon (detto Le petit Bernard) che illustrano il volume Metamorphose d'Ovide figurée, stampato a Lione nel 1557.
Anche se artisticamente deboli, queste immagini sono, tuttavia, importanti perché proprio le Metamorfosi di Ovidio fanno da filo conduttore a tutto il ricco apparato di affreschi mitologici che si sviluppa lungo il palazzo.
Ci troviamo, anzi, per dirla con Mulazzani, di fronte a "una delle più imponenti e particolareggiate rappresentazioni dei temi delle Metamorfosi di Ovidio", tanto più preziosa, aggiungiamo noi, non solo perché a tutt'oggi poco conosciuta, ma perché collocata al centro delle Alpi, nel palazzo di una nobile famiglia cattolica che nel pieno della Controriforma mostra un totale disinteresse a temi di natura religiosa, per volgersi, per lo più, a quelli mitologici e profani dell'amore e della sensualità, sul filo della riscoperta rinascimentale di uno dei più grandi poeti dell'antichità classica e della sua filosofia edonistica della vita
Sulla destra dell'atrio, si accede alla sala delle udienze o di Giunone, una vera e propria stüa, rivestita alle pareti da una preziosa boiserie ricca di splendidi intarsi e di architettonici rilievi, entro cui si inserisce una bella "pigna" cinquecentesca ricoperta di formelle dipinte e mattonelle in terracotta smaltata a rilievo, con figure virili nella parte bassa e figure allegoriche alternate della Dialettica e della Fede nel rivestimento della parte cilindrica.
Ogni particolare appare in questo ambiente finemente lavorato e contribuisce alla suggestiva eleganza dell'insieme perfettamente intonato alla sua funzione di sala di riunioni politiche e di affari.
E' questo il cuore del palazzo. Qui sono intarsiate nel legno, ai lati della porta principale, le iniziali in tedesco dei due fratelli che restaurarono il palazzo, "L W V R", Ludwig Wiligelm Vertemate Restauraverunt, e, di fronte, la data, 1577. Qui è intarsiato, sopra la porta che immette nello studiolo, ben visibile a chi entra, il motto latino della famiglia, INDUSTRIA AUGET IMPERIUM. E l'uso del latino e del tedesco è quanto mai aderente al tono prevalentemente nordico e grigionese dell'ambiente, ingentilito dagli affreschi della volta che, con bell'effetto decorativo, coronano il severo rivestimento ligneo.
Gli affreschi - forse precedenti al rivestimento in legno, cui calzano, però, come un guanto - riprendono e sviluppano il racconto degli amori di Giove nelle Metamorfosi di Ovidio. Il centro della volta è occupato dal grande riquadro con Giunone sul carro fra le nubi trainato da due pavoni, che osserva i tradimenti del marito descritti nelle scene al di sotto di lei. Nei quattro riquadri della volta, affiancati da quattro coppie di figure femminili su elegante fondo nero, sono, infatti, raffigurati gli amori di Giove e Callisto (in greco, la più bella), narrati nel II libro delle Metamorfosi di Ovidio.
Nel primo riquadro, Giove, colpito da Cupido, osserva furtivamente Callisto, figlia del re dell'Arcadia Licaone e seguace prediletta di Diana, che si riposa nel bosco. Assunte le forme di Diana, il dio la segue e la seduce nel bosco sacro, come appare sullo sfondo (Metam. II, 409-431). Nel riquadro successivo, Callisto, incinta, non vuole denudarsi al bagno davanti a Diana e alle compagne per non fare scoprire la sua gravidanza. Diana, però, la scopre (Metam. II, 453-464). Segue il riquadro in cui Giunone, scesa dal suo carro, afferra per i capelli Callisto, che ha messo al mondo il figlio Arcade, e, per vendetta, la trasforma in orsa (Metam. II, 466-495). Nell'ultimo riquadro, Arcade adulto, durante la caccia si imbatte nell'orsa che racchiude sua madre e sta per abbatterla, ma Giove trasforma anche lui in orso e innalza poi in cielo madre e figlio trasformati rispettivamente nelle costellazioni dell'Orsa maggiore e dell'Orsa minore. Sulla destra Giunone furiosa va a protestare da Oceano e Teti per evitare che di giorno, come si credeva, accolgano nelle azzurre acque marine, insieme alle altre, le due nuove stelle e le abbandonino sempre nelle buie braccia della notte (Metam. II, 496-530).
Anche queste scene ricalcano le illustrazioni del Salomon nel volume citato.
In alto sulle pareti, la narrazione prosegue in sei piccoli riquadri con la storia di Danae
Ad Acrisio, re di Argo, viene profetizzata la fine per mano della prole della figlia Danae. Danae viene allora segregata dal padre in una stanza sotterranea chiusa da porte di bronzo, ma viene ugualmente sedotta da Giove penetrato nella stanza sotto forma di pioggia d'oro. Acrisio decide allora di gettarla in mare entro una cassa col figlio Perseo avuto dal dio. Entrambi verranno, però, salvati da un pescatore e accolti dal re Polidette.
Solo marginalmente nelle Metamorfosi di Ovidio si fa riferimento alla storia di Danae, che qui, invece, è narrata distesamente perché fa da preistoria alle imprese di Perseo, il figlio di Danae, raffigurate sulla volta della piccola sala attigua a quella di Giunone.
Perseo riceve dal re Polidette - che vuole allontanarlo per poterne sposare la madre - la missione di tagliare la testa alla Medusa che ha il potere di pietrificare chiunque la guardi. Con l'aiuto di Atena Perseo riesce nell'impresa e, sulla via del ritorno in groppa a Pegaso, il cavallo alato, grazie alla testa delle Medusa, salva dal drago una giovane, Andromeda, che diventerà sua sposa, libera la madre Danae da Polidette e dona infine la testa della Medusa ad Atena che ne farà lo scudo con cui viene da allora sempre raffigurata.
Il secondo piano, artisticamente il più importante, è costituito da ambienti tutti affrescati, col soffitto in legno diversamente lavorato.
Spicca tra questi il salone dello Zodiaco, il più celebre di tutto il palazzo, scelto nel 1911 per rappresentare, insieme al podio di Plinio il Vecchio sulla facciata del Duomo di Como, il territorio della diocesi comasca all'Esposizione nazionale di Roma.
Il salone deve il suo nome ai dodici segni zodiacali raffigurati sulle pareti al di sopra delle dodici grandi figure maschili che rappresentano i mesi dell'anno. Fra queste figure si inseriscono cinque grandi riquadri con scene mitologiche, non sempre esattamente individuabili, ma comunque riferibili alle Metamorfosi di Ovidio.
Più chiari i riferimenti alle stesse Metamorfosi nelle scene dei dodici riquadri rettangolari che chiudono in alto gli affreschi.
Qui si riconoscono alcuni episodi tutti riconducibili al tema della punizione divina per le offese degli uomini: i contadini della Licia trasformati in rane da Latona per averle rifiutato da bere quando, insieme ai figli Apollo e Diana, era costretta da Giunone a vagare per la terra senza dimora (Metam. VI, 317-381); l'uccisione, da parte di Apollo e Diana, dei figli di Niobe che aveva sfidato e offeso la loro madre, Latona (Metam. VI, 148-315); la trasformazione in leoni di Atalanta e Ippomene che avevano profanato, accoppiandosi, il tempio di Cibele (Metam. X, 560-704); la crescita delle orecchie d'asino al Mida per aver mal giudicato nella gara tra Apollo e Marsia (Metam. XI, 85-193).
A differenza che nel salone di Giove e Mercurio, qui gli affreschi seguono un più preciso filo tematico e narrativo e le grandi figure maschili dei mesi non sono immagini stereotipate, ma sembrano autentici ritratti dal vero. Se a questo si unisce la vivacità dei colori e la più raffinata tecnica esecutiva, allora possiamo dire che gli affreschi di questa sala costituiscono "l'episodio decorativo più alto di tutto il palazzo", da assegnare "a una mano diversa da quella o da quelle che operarono al piano inferiore." (Mulazzani). Una data graffita sotto la rappresentazione del mese di ottobre, MDC, cioè 1600, è forse quella in cui questi affreschi furono eseguiti.
Incombe su di essi, con la sua architettonica imponenza, il grande soffitto in legno intagliato, un capolavoro unico nel suo genere, costato, pare, quasi quattromila ducati ai Vertemate. Il grande riquadro centrale, internamente sorretto dai mensoloni in legno scolpito, è un arabesco di motivi ornamentali che culminano nel medaglione con la figura in altorilievo della Fama, che pare librarsi nell'aria. Ai quattro lati, altrettanti, ma meno fastosi riquadri esagonali racchiudono ognuno un'ellissi entro cui, in un cesello di intagli, si distende la figura di Venere.
Poi la decorazione, avvicinandosi alle pareti, si fa sempre sobria e lineare, fino a cedere il posto al fasto decorativo degli affreschi.
Questi non soffrono dell'imponenza architettonica del soffitto, grazie all'orientamento diagonale di quest'ultimo che crea, nello spazio rettangolare, un punto di convergenza angolare coi dipinti, verso cui l'occhio naturalmente si orienta, percependo il tutto in totale armonia.
Il soffitto ligneo è la caratteristica di tutti gli ambienti del secondo piano. Se quello della sala dello Zodiaco è un capolavoro di intaglio, quello della cosiddetta stanza del vescovo è, invece, un capolavoro di intarsio, culminante nell'ottagono centrale che G. B. Macolino nel 1708 definì un "verissimo mosaico", un mosaico policromo, "composto di migliaia e migliaia di minuzzoli di prezioso legno vario per il nativo colore diversamente riquadrati, e politi". In mezzo domina un globo, lo stesso che sporge, diversamente intarsiato, al centro dei riquadri rettangolari dove, fra gli intarsi a racemi floreali, si apre un lineare disegno cruciforme, in sintonia con la denominazione della stanza. Qui infatti, a quanto pare, venivano ospitati i vescovi di Como in visita pastorale e qui dimorò alcuni giorni il vescovo Ciceri nel 1690, in occasione della consacrazione dell'oratorio dedicato alla vergine Incoronata e ai Ss. Francesco d'Assisi e Antonio da Padova, all'esterno del palazzo.
Alle pareti, entro ampi riquadri di decorazioni a grottesche, Germano Mulazzani ha riconosciuto episodi della sfida al telaio tra Aracne e Minerva, narrata nel VI libro delle Metamorfosi. Nei cinque riquadri più piccoli del fregio sono quindi sono raffigurati le storie di prodigiose trasformazioni che, a gara, Aracne e Minerva tessono al telaio.
Gli episodi sono così ricostruiti dal Mulazzani: 1) Per sfuggire alla seduzione di Giove, Asterie, dea degli astri, si trasforma in quaglia, ma è ghermita da Giove trasformatosi in aquila (Metam. VI, 108), 2) Asterie allora si trasforma in isola (Metam. VI, 108); 3) gara tra Minerva che fa spuntare l'ulivo e Nettuno che fa apparire un cavallo (Metam. VI, 75-82); 4) Antigone trasformata da Giunone in cicogna (Metam. VI, 93-97); 5) Rodope e suo marito Emo trasformati in monti per aver voluto essere dei (Metam. VI 87-89); 6) Cinira piange sconsolato le figlie trasformate in gradini del tempio (Metam. VI, 98-100).
Sempre al secondo piano, la camera detta del Carducci, che visitò il palazzo nel 1888, quella degli Amici, che Carducci battezzò delle Arti o degli Amori, e quella degli Amorini, tutte col soffitto in legno a grandi motivi geometrici, non presentano nei fregi e nelle decorazioni delle pareti motivi di particolare interesse.
E' invece nella sala delle Cariatidi, dove il soffitto in legno presenta una più mossa ed elaborata geometria architettonica, che troviamo l'ultimo ciclo di affreschi di ispirazione ovidiana. La sala è così chiamata per le sei grandi figure femminili, le Cariatidi, appunto, dipinte ritte come colonne a sostegno dei capitelli, ma una è raffigurata seduta.
La parte più interessante è il fregio in alto dove, su ogni lato, campeggia al centro un simbolo dei quattro elementi, la terra, l'aria, l'acqua, il fuoco e, a lato, due scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio in relazione col tema della parete.
E così, secondo la ricostruzione datane da Germano Mulazzani, ai due lati del Fuoco, in un riquadro è raffigurata Chione, figlia di Dedalione, trafitta da Diana dopo aver offeso la dea (Metam. XI, 307-310), nell'altro Dedalione che, vedendo bruciare la figlia, sale disperato sul Parnaso per gettarsi da una rupe, ma viene trasformato in uccello da Apollo (Metam., XI, 332-342).
Ai due lati dell'Acqua, si vede, invece, Teti trasformarsi in tigre per sfuggire alla seduzione di Peleo (Metam. XI, 245-246) e Proteo che suggerisce a Peleo come possedere Teti malgrado le sue trasformazioni (Metam. XI, 247-254).
Ai lati dell'Aria, nella prima scena Teti si arrende, infine, a Peleo (Metam. XI, 260-265), mentre nell'altra Mercurio addormenta Chione per possederla e la stessa Chione viene subito dopo posseduta anche da Apollo travestito da vecchia (Metam. XI, 307-310).
Ai lati della Terra, infine, sono raffigurati un uomo e una donna in un antro in riva al mare e Giove che indica a un guerriero il mare e le navi, due scene di oscuro significato.
Altre tre scene delle Metamorfosi le troviamo, invece, nelle storie di Alcione e di Ceice raffigurate nei dipinti sulle pareti, di cui uno tagliato per la realizzazione del camino. In uno si vede la scena del naufragio e della morte di Ceice (Metam. XI, 474-572), nel secondo Giunone manda Iride alla reggia del Sonno perché faccia avere in sogno ad Alcione la notizia del naufragio di Ceice (Metam. XI, 583-592) e nell'ultimo Alcione affranta, si sveglia dopo aver sognato la morte di Ceice (Metam. XI, 677-680).
Il sogno, insomma, come presentimento e segreto avvertimento divino per rendere più sopportabile al risveglio il doloroso impatto con la realtà.
Si chiude qui il corpus degli affreschi ispirati alle Metamorfosi di Ovidio che costituisce l'aspetto iconograficamente più importante e originale del palazzo.
Ma se le Metamorfosi ci danno, per così dire, la chiave di lettura degli affreschi del palazzo, nulla sappiamo tuttavia sul loro, o meglio sui loro autori. Non c'è dubbio, infatti, che sono dovuti a mani diverse.
Nel 1879 l'arciprete di Sondrio Antonio Maffei, allora Ispettore degli scavi e monumenti della provincia, avanzò per primo l'ipotesi dei fratelli Campi di Cremona, successivamente ribadita e precisata dal milanese napoleone Brianzi che nel 1902 con la moglie Mina Arrigoni, figlia della celebre antiquaria Sofia Arrigoni ed erede del famoso negozio di antiquariato di via Durini a Milano, aveva acquistato il palazzo in penosa decadenza, salvando dalla vendita i preziosi soffitti lignei, riportando alla luce gli affreschi intonacati e restituendolo al suo antico splendore. Brianzi indicava in Antonio Campi, il maggiore esponente della dinastia cremonese, l'autore degli affreschi nel salone dello Zodiaco e attribuiva al fratello Vincenzo e al padre Giulio quasi tutti gli altri affreschi. Più recentemente, però, sono stati avanzati anche i nomi di Giovanni Battista Guarinoni e Antonio Maria Caneva, riconducibili all'ambito di Bernardo Castello detto il Bergamasco, quelli dei milanesi Aurelio Luini e Giuseppe Meda e quello del bresciano Lattanzio Gambara, tutti, comunque, esponenti più o meno rilevanti di quel manierismo lombardo del primo Seicento di cui gli affreschi di palazzo Vertemate, con il loro eclettismo, rappresentano una delle più cospicue testimonianze.
La nostra visita al palazzo si conclude al primo piano, nella stüa settecentesca realizzata nel 1797, lo stesso anno della secessione di Valtellina e Valchiavenna dai Grigioni e della costituzione a Piuro di un tribunale rivoluzionario presieduto da Francesco Vertemate Franchi. L'anno in caratteri latini, MDCCXCVII, lo si legge in un'antella della stüa, sotto le iniziali L. V., forse Luigi Vertemate, probabile fratello di Francesco.
La stanza è detta anche di Napoleone, ma la N che si vede entro una corona dorata di alloro, più che a Napoleone Bonaparte si riferisce, forse, come ipotizza Giovanni Giorgetta, a Napoleone Brianzi che, all'inizio del Novecento, ricostruì e riarredò la stanza in squisito e perfetto stile neoclassico sulla scorta di quanto ne rimaneva.
Alle pareti del primo piano troviamo pure buona parte delle opere che fanno parte, oggi, della Galleria del palazzo. Ad esclusione dei ritratti di famiglia - tra cui spiccano quelli di Luigi e Guglielmo costruttori del palazzo, e quelli di due dei fratelli superstiti alla frana, Luigi II e Girolamo, che Sandra Sicoli ha attribuito a G.B. e G. P. Recchi - non si tratta di opere appartenute ai Vertemate. Insieme a buona parte degli arredi, tutti del Sei-Settecento, anche i dipinti sono stati collocati nel palazzo dai coniugi Brianzi e dall'ingegner Luigi Bonomi, collezionista, che insieme ad Antonio Feltrinelli nel 1937 - dopo le rocambolesche vicende in cui fu coinvolta l'anziana vedova Mina Arrigoni, vittima di due truffatori - acquistò il palazzo, lasciato poi in eredità alla signora Maria Eva Sala, e da questa infine donato, nel 1983, al comune di Chiavenna che dal 1987 ne ha assunto l'effettiva proprietà.
Gian Giacomo Macolino, Istoria della miracolosa apparizione di Maria Vergine in Gallivaggio Valle San Giacomo Contado di Chiavenna..., Milano, 1708
Lorenzo Benapiani (pseud. di Napoleone Brianzi), Il palazzo Vertemate Franchi in Piuro, 1902 (riedito con introduzione di G. Bertacchi e uno scritto di Pio Rajna, Padova, Tip. Antoniana, 1925)
Giacinto Caligari, Palazzo Vertemate in Piuro (Cronaca spicciola di un breve periodo). Quarantennio 1901-1940, in "Clavenna", I (1962).
Antonio Colombo, La nobile famiglia de Vertemate Franchi di Piuro, Milano, Ares, 1969
Guglielmo Scaramellini, Il palazzo Vertemate Franchi di Cortinaccio di Piuro. Una villa rinascimentale suburbana nel cuore delle Alpi, in Ville suburbane, residenze di campagna e territorio. Esempi in Lombardia e ed Emilia Romagna, Atti del Convegno (Varese, 21-22 settembre 1988), Varese, Lativa 1989
Guido Scaramellini, Piuro nella storia, in AA. VV. La Frana di Piuro del 1618. Storia e immagini di una rovina, Centro studi storici valchiavennaschi, 1988
Germano Mulazzani,( a cura di), Il palazzo Vertemate Franchi di Piuro, con saggi A. Liva, L. Corrieri, G. Mulazzani, R. Pavoni, S. Sicoli, Milano, Federico Motta/Credito valtellinese, 1989
Giovanni Giorgetta, Il palazzo Vertemate Franchi, Sondrio Lyasis, 2004, (II ed.)
Da fine marzo ai primi di novembre aperto tutti i giorni dalle ore 10:00 alle ore 12:00 e dalle 14:30 alle 17:30.
Chiuso i mercoledì non festivi. Agosto sempre aperto.
Info e prenotazioni visite guidate, anche nel periodo invernale
Consorzio Turistico Valchiavenna
Tel: +39 0343 37485
e-mail: consorzioturistico@valchiavenna.com